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LA RESPONSABILITÀ CIVILE NELLE ATTIVITÀ SPORTIVE: QUALCHE PRECISAZIONE DALLA SUPREMA CORTE (nota a Cass. civile, ord., Sez., VI, 19/11/2021, n. 35602), di Stefan Schwitzer

Oggetto

 La responsabilità civile nelle attività sportive: qualche precisazione dalla Suprema Corte
(nota a Cass. civile, ord., sez. VI, 19.11.2021, n. 35602)

Sintesi

Il procedimento riguarda un fatto accaduto nel corso di un esame di arti marziali, finalizzato al conseguimento della c.d. “cintura nera”. Per poter svolgere tali prove di esame è necessaria la partecipazione di un terzo volontario in veste di antagonista. In concreto, il candidato, nell’ambito della prova, colpiva quest’ultimo al naso e gli procurava una deviazione del suo setto.

 

Il danneggiato citava in giudizio il candidato, chiedendo il risarcimento del danno. Tale domanda veniva rigettata da parte del giudice sia di primo grado, sia d’appello. Presentato ricorso per Cassazione, il danneggiato lamentava una violazione dell’art. 2043 c.c. e, in specifico, l’omessa qualificazione e valutazione differenziata delle prove di esame svolte per conseguire un certo livello rispetto al concreto esercizio della singola attività sportiva.

 

Il tema, pertanto, riguarda l’inquadramento della responsabilità civile nelle attività sportive e, in particolare, la sua applicazione anche alle attività svolte non già per praticare una determinata attività sportiva, ma durante una prova di esame finalizzata al raggiungimento di uno specifico livello in tale sport.

 

Con riferimento alle attività sportive connotate dall’uso essenziale (ad esempio, il pugilato o il rugby) o eventuale (ad esempio, il calcio) della violenza da parte dei partecipanti, la Corte di cassazione, per la qualificazione di fatti dannosi verificatisi svolgendo uno di tali sport, ha stabilito che “il criterio per individuare in quali ipotesi il comportamento che ha provocato il danno sia esente da responsabilità civile sta nello stretto collegamento funzionale tra gioco ed evento lesivo, collegamento che va escluso se l’atto sia stato compiuto allo scopo di ledere, ovvero con una violenza incompatibile con le caratteristiche concrete del gioco. Sussiste, pertanto, in ogni caso la responsabilità dell’agente in ipotesi di atti compiuti allo specifico scopo di ledere, anche se gli stessi non integrino una violazione delle regole dell’attività svolta; la responsabilità non sussiste invece se le lesioni siano la conseguenza di un atto posto in essere senza la volontà di ledere e senza la violazione delle regole dell’attività, e non sussiste neppure se, pur in presenza di violazione delle regole proprie dell’attività sportiva specificamente svolta, l’atto sia a questa funzionalmente connesso. In entrambi i casi, tuttavia, il nesso funzionale con l’attività sportiva non è idoneo ad escludere la responsabilità tutte le volte che venga impiegato un grado di violenza o irruenza incompatibile con le caratteristiche dello sport praticato, ovvero col contesto ambientale nel quale l’attività sportiva si svolge in concreto, o con la qualità delle persone che vi partecipano” (Cass. civile, sez. III, 10.5.2018, n. 11270; Cass. civile, sez. III, 8.8.2002, n. 12012).

 

Tornando al caso di specie, la Suprema Corte pare discostarsi da tale orientamento consolidato, secondo il quale, sempre in applicazione dell’esposto criterio, sussisterebbe una causa di giustificazione, con la conseguente esclusione dell’antigiuridicità del fatto (a riguardo si veda, ad esempio, Cass. penale, sez. V, 29.1.2018, n. 21120; Cass. penale, sez. IV, 26.11.2015, n. 9559; Cass. civile, sez. III, 30.3.2011, n. 7247). Nella pronuncia in esame la Corte, invece, inquadra la questione della violenza sportiva nell’ambito dell’elemento soggettivo, ossia della colpa (si veda anche Cass. penale, sez. IV, 21.10.2021, n. 3284).

 

Essa, in specifico, citando propria risalente giurisprudenza, secondo la quale “l’attività agonistica implica l’accettazione del rischio ad essa inerente da parte di coloro che vi partecipano, per cui i danni da essi eventualmente sofferti rientranti nell’alea normale ricadono sugli stessi” (ossia, Cass. civile, sez. III, 20.2.1997, n. 1564; Cass. civile, sez. III, 22.10.2004, n. 20597; Cass. civile, sez. III, 27.10.2005, n. 20908), fa leva sulla regola dell’accettazione del rischio. La Suprema Corte, però, precisa che per la sua applicazione sia necessario differenziare i seguenti due scenari:

  1. casi in cui il danno sia stato causato rispettando le regole di gioco; in tali ipotesi, “il danno si connota in termini di imprevedibilità in ragione dello scopo della norma violata: le regole del gioco, infatti, possono essere a presidio del gioco stesso, come a presidio della incolumità dell’avversario (in alcuni sport di contatto, il divieto di colpi bassi). In questi casi se lo sportivo procura danno, pur nel rispetto della regola di gioco, il danno può non porsi a carico del danneggiante per difetto di colpa”;
  2. casi in cui il danno sia stato causato colpevolmente violando le regole di gioco, in specie quelle aventi lo scopo di proteggere l’incolumità personale; in tali ipotesi, “non si tratta di una scriminante, né tipica (consenso dell’avente diritto), né atipica, che altrimenti, l’attività sportiva sarebbe da considerare come illecita, ed invece è attività consentita e socialmente utile. Piuttosto, si tratta di valutare la rilevanza della colpa”.

Ciò rilevato, la Corte sottolinea che i partecipanti di una specifica attività sportiva non accettano, in quanto tale, il rischio a qualsiasi danno che potrebbero subire nel praticare tale sport. Così, per esempio, non accettano il rischio del danno cagionato dolosamente dall’avversario. “È dunque giustamente escluso dalla regola dell’accettazione del rischio il fatto doloso o dovuto a colpa particolarmente grave (Cass. 12012/ 2002)”.

 

Inoltre, la Suprema Corte evidenzia che nell’accertamento e nella valutazione dell’elemento soggettivo della colpa:

  1. sia necessario individuare quale regola di gioco fosse in concreto violata e quale sia il suo scopo;
  2. possano essere rilevanti le qualità del singolo atleta (professionista o, invece, dilettante).

Alla luce di ciò, la Corte di cassazione rileva che questa regola si applica non soltanto per le attività sportive in senso stretto, ossia per il suo svolgimento vero e proprio, ma anche per gli esami svolti al fine di conseguire un certo livello in tale sport. Di conseguenza, essa rigetta il ricorso: “essendo il motivo basato sulla distinzione tra attività sportiva vera e propria e prova di esame, [esso] non può essere accolto, in quanto le regole dell’una sono identiche per l’altra, la distinzione essendo di mera finalità del medesimo sport, ossia della medesima condotta, finalità (esame sportivo, anziché gara, o allenamento) che non incide sulla valutazione della colpa rispetto allo scopo della regola violata”.

Keywords

Responsabilità civile nelle attività sportive; violenza sportiva; accettazione del rischio; scriminante sportiva; colpa; prova di esame; arti marziali

Autore

Avv. Stefan Schwitzer

Avvocato del Foro di Bolzano. Collaboratore scientifico presso l’Istituto di diritto italiano dell’Università di Innsbruck nell’ambito del progetto di ricerca “Natural Hazards in the Mountain Environment: Risk Management and Responsibility”, finanziato dalla Provincia autonoma di Bolzano-Alto Adige, Ripartizione Innovazione, Ricerca, Università e Musei, attraverso il bando “Ricerca Südtirol/Alto Adige”, anno 2019.

 

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