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GIURISPRUDENZA PENALE - Cass. Pen. Sez. III, 30/01/2020 Cc. (dep. 31/07/2020), n. 23435

Titolo/Oggetto

 GIURISPRUDENZA PENALE

Estremi provvedimento

Cass. Pen. Sez. III, 30/01/2020 Cc.  (dep. 31/07/2020), n. 23435 – Pres. Ramacci Luca - relatore/estensore: Macrì Ubalda.  Imputato: S.D. - PG Marinelli Felicetta. (conf.) – Rigetta, GIP Trib. Torino 19/9/2019 

Massima

L'obbligo di presentazione all'autorità di pubblica sicurezza previsto dall'art. 6, comma 2, legge 13 dicembre 1989, n. 401, avendo natura di misura di prevenzione e non di pena nell'accezione di cui all'art. 7 CEDU, è assoggettato alla disciplina vigente al momento della sua applicazione.

Keywords

 SPORT – DASPO – ART. 6, CO. 2, L. N. 401/1989

Commento/Sintesi

Con sentenza della Terza Sezione Penale della Suprema Corte n. 23435/2020, è stato rigettato il ricorso proposto avverso l’ordinanza del Giudice per le Indagini Preliminari di Torino, che aveva convalidato il provvedimento emesso nel settembre 2019 dal Questore di quella città, col quale era stata disposta la misura impositiva dell’obbligo di presentazione alla autorità di pubblica sicurezza (c.d. DASPO) per la durata di anni 10. La condotta che aveva dato luogo al provvedimento era precedente al giugno 2019, data di entrata in vigore della modifica normativa (D.L. 14.6.2019 n. 53), che aveva apportato alcune modifiche all’originaria formulazione dell’art. 6 comma 2 L. 401/1989, tra l’altro innalzando fino a 10 anni la durata della misura, che in precedenza non poteva superare il massimo di 8 anni. Pertanto, il ricorrente si doleva del fatto che il provvedimento a suo carico aveva ecceduto il limite temporale massimo stabilito per esso dalla legge in vigore al momento del fatto, con conseguente violazione del principio di irretroattività. In particolare, secondo il ricorrente, il GIP torinese, nel convalidare il provvedimento dell’Autorità di pubblica sicurezza, avrebbe dovuto applicare la norma più favorevole, posto che, secondo il principio enucleato dalla Corte Cost. con sentenza n. 512/02, la misura in questione rientra a pieno titolo tra quelle restrittive della libertà personale.

 

È utile a questo punto rammentare che il DASPO (acronimo di Divieto di Accedere alle manifestazioni sportive) consiste in una misura finalizzata ad evitare la verificazione di violenze in occasione di avvenimenti sportivi in generale, anche se è noto che la sua più larga applicazione, in concreto, concerne le partite di calcio. Secondo quanto attualmente previsto dall’art. 6 della L. 13.12.1989, n. 401, come successivamente modificata, il Questore non solo può disporre il divieto di accesso ai luoghi in cui si svolgono manifestazioni sportive specificamente indicate, nonché a quelli, parimenti indicati, interessati alla sosta, al transito o al trasporto di coloro che partecipano o assistono alle manifestazioni medesime (comma 1), ma il Questore può prescrivere anche alle persone alle quali è notificato il divieto previsto dal comma 1, tenendo conto dell'attività lavorativa dell'invitato, di comparire personalmente una o più volte negli orari indicati, nell'ufficio o comando di polizia competente in relazione al luogo di residenza dell'obbligato o in quello specificamente indicato, nel corso della giornata in cui si svolgono le manifestazioni per le quali opera il divieto di cui al comma 1. Ai sensi del novellato comma 5, la misura può, in determinati casi, giungere ad una durata non superiore ad anni 10 (comma 2, art. 6, l. cit.).

 

L’istituto è stato oggetto di numerosi interventi della giurisprudenza penale soprattutto diretti a stabilire la sua esatta natura. In particolare, per univoco orientamento, il provvedimento di cui al comma 2 è ritenuto una misura limitativa della libertà personale – cfr. Corte Cost. n. 193/1996 – a differenza del DASPO in senso stretto (comma 1) che è, invece, misura interdittiva. Pertanto, è stato chiarito che la sua natura di atto suscettibile di incidere sulla libertà personale impone che il giudizio di convalida effettuato dal giudice per le indagini preliminari non possa limitarsi ad un mero controllo formale, bensì, come la giurisprudenza ordinaria ha precisato, debba essere svolto in modo pieno (si veda anche Cass. Pen., SS.UU., n. 4443/2005, secondo la quale l’annullamento per vizio di motivazione dell’ordinanza di convalida non ne mette in discussione la ritualità, ma richiede il rinvio per consentire nuova deliberazione che ricostituisca un titolo valido e operativo mediante l’emendamento dei vizi motivazionali).

 

Nel caso di specie, la Terza sezione penale della SC, con la sentenza in commento, ha specificato che l’obbligo di presentazione all’autorità di pubblica sicurezza previsto dall’art. 6, comma 2, l. 401/1989, pur essendo una misura privativa della libertà personale, non può essere, tuttavia, considerata una pena, nell’accezione di cui all’art. 7 CEDU, ma deve essere considerata una misura di prevenzione. D’altro canto, la natura di prevenzione è stata ormai affermata con continuità dalla recente giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. Pen., Sez. III, n. 4070/2007; Cass Pen., Sez. III, n. 24819/2016).

 

Ne consegue che, contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso, essa non viene ritenuta soggetta al regime della irretroattività della legge penale, ma è regolata dalla legge vigente al momento della sua applicazione, similarmente a quanto stabilito dall’art. 200 c.p. a proposito delle misure di sicurezza. I giudici di piazza Cavour, a supporto di tali argomentazioni, hanno anche rammentato che il criterio del favor rei non è un principio dell’ordinamento processuale, nemmeno nell’ambito delle misure cautelari «[…] poiché non esistono principi di diritto intertemporale propri della legalità penale che possano essere pedissequamente trasferiti nell’ordinamento processuale» (si veda Cass. Pen., SS.UU., n. 27919/2011), applicandosi in tal caso il diverso principio del tempus regit actum.

 

La natura prevenzionale della misura in questione attrae, dunque, le sue modalità  applicative nell’ambito di un fenomeno che ha conosciuto una vivace espansione negli ultimi anni, per effetto delle difficoltà e dell’efficacia dello strumento penale a contrastare fenomeni criminali diffusi e generatori di insicurezza sociale (si veda, ad es., il Codice antimafia), con conseguente creazione di strumenti di prevenzione personale e, a partire dagli anni ‘80, specialmente patrimoniale, capaci di fornire una difesa sociale anticipata. Ciò ha evidentemente aperto un forte dibattito di compatibilità con i principi sanciti dalle Carte Fondamentali e dalla Costituzione ed ha richiesto interventi puntuali della Corte Costituzionale per fissare criteri di adeguata collocazione nel sistema (si veda Corte Cost. n. 24/2019 e n. 25/2019 rese anche alla luce dei principi della sentenza CEDU, Grand Chambre, 23.02.2017).

Autore

Avv. Roberto Bertuol

 

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